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Un tempo, anche non lontano, prima dell’occupazione totale ed orizzontale dell’immaginazione delle persone da parte della TV, uno dei passatempi principali per intrattenere i fanciulli era raccontare loro delle storie. Arte questa assai nobile e di lunghissima storia, la tradizione orale ha accompagnato l’umanità da sempre, e, malgrado sia pratica assai indebolita dalla tecnologia, ancora sopravvive. Il narratore di questo libro è un sostenitore della tradizione orale, egli, nel corso di un lungo ed articolato prologo, spiega ai lettori come abbia sempre inventato storie per intrattenere le sue figlie e se ora si cimenta nel mettere in forma scritta una di queste, è un po’ per mancanza di tempo ed attenzione da parte delle fruitrici della storia e un po’ per sfida a sé stesso. Infatti, come anche più volte sottolineato nel corso della narrazione, la voce narrante si rivolge alle tre figlie, facendo sentire il lettore come un ficcanaso che ha casualmente scoperto un carteggio privato e se lo voglia gustare con quel sottile fascino del vietato. La trama della storia narrata è abbastanza semplice e si basa sull’inanellarsi di una serie di coincidenze legate ad un incidente piuttosto grave occorso ad un bel figliolo, che immediatamente il lettore identifica col bel faccino dall’occhio azzurro che campeggia sulla copertina del volume. Il lettore più smaliziato riesce a capire quasi subito il mistero che la vita di Donato, questo il nome del bell’infortunato, cela, anzi sembra quasi che il piccolo segreto sia messo lì con una certa falsa ingenuità, quasi a sottolineare che non è la trama, non sono i fatti narrati che creano l’ossatura del romanzo, ma è il raccontarli il fine ultimo del romanzo. Infatti, la voce narrante approfitta di ogni piccolo sentiero che appare sulla via maestra della trama per concedersi lunghe divagazioni, il flusso narrante si perde in mille rivoli. La voce del narratore conduce il rapito lettore in viaggi nel tempo, illustra la vita dei napoletani (mi pare di capire che Napoli è il luogo dove si svolgono i fatti, ma il nome della città è sempre celato dietro quello fittizio di Gomorra) durante la Guerra, la ricostruzione, di come molti siano stati costretti ad emigrare. Col narratore scopriremo molto di come funziona una sala operatoria, di quali cure vengono somministrate ad un infortunato durante il tragitto verso l’ospedale, ci sembrerà di scoprire le zone verdeggianti che circondano Gomorra, o resteremo con lui invischiati nel traffico caotico dell’ora di punta. Le famiglie dei protagonisti verranno analizzate ed ogni singolo membro avrà la sua manciata di righe di gloria. Una narrazione proteiforme quella del Piscitelli, capace di passare agevolmente da termini tecnici, a forme colloquiali, a frasi ampollose accanto ad altre più schiettamente popolari, quel che conta è raccontare, intrattenere oserei dire. Al termine della lettura il libro si chiude un po’ a malincuore, contenti per il confettato, zuccheroso e meritato finale, ma un po’ dispiaciuti di dover salutare la voce che ci ha incantato per 388 pagine senza far mai pesare neanche una riga. La narrazione di Piscitelli procede spedita lungo mille divagazioni, mille approfondimenti, puntualizzazioni, precisazioni, collezioni, senza però mai pesare, con la grande capacità di tenere sempre desta l’attenzione del lettore, facendolo divertire, anche commuovere con l’impressione di essere in poltrona, accanto ad un bel caminetto scoppiettante in compagnia di un vecchio amico che ci racconta una bella storia per farci divertire e passare il tempo. Tuttavia, sebbene l’impianto sia quello del racconto orale, che si vuole far passare per semplice – popolare – tra le righe traspare una fine intelligenza ed una acuta erudizione, lo si nota dalla scelta di molti termini, da certi preziosismi lessicali, dalla mancanza assoluta di ripetizioni o di cadute verbali o di tensione narrativa.

Una narrazione sorprendente, questa, si inizia immaginandosi un romanzo comune, ed invece non lo è, si capisce che vuole essere una storia narrata, così, per passare il tempo, ma l’assoluta raffinatezza mal si addice ad una storia che vuole essere solo un racconto verbale. Forse per questo libro si potrebbe rispolverare il termine di feuilleton, ponendolo sotto l’egida protettrice di Hugo, ma a Piscitelli va riconosciuta una estrosa e graffiante ironia che nel Maestro risulta latitare. Si dà il caso che questo sia davvero un bel romanzo per chi si vuole rilassare e divertire, passare qualche ora in compagnia di un narratore arguto e divertente, che conosce perfettamente le regole della narrazione e della lingua italiana, cose, credetemi non così usuali o scontate. Da parte mia oltre a ringraziare il signor Piscitelli per il bel romanzo gli sono grato per aver rispolverato il termine pinzochere, assai utile, soprattutto in questi nostri giorni in cui proprio le pinzochere che si credevano estinte tendono a dilagare.

 


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